Pasqua 2018, Scoppio del Carro: l’omelia di Betori. Il volo della colombina e il mistero del fuoco sacro

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Ecco l’omelia del giorno di Pasqua del cardinale Giuseppe Betori

FIRENZE – «Se diciamo Pasqua e Firenze, la terza locuzione non può che essere Scoppio del Carro» si leggeva qualche giorno fa su un giornale fiorentino. E guardando alla tanta gente oggi in questa Cattedrale e alla tantissima gente in piazza del Duomo non si può che sottoscrivere queste parole. Pasqua a Firenze è Scoppio del Carro, festa di fochi e di botti che ci tiene tutti con lo sguardo all’insù e con un po’ di battito di cuore, soprattutto per il buon esito della corsa della colombina. Ma se fosse tutto qui, si dovrebbe dire che Firenze è il paese dei balocchi e i fiorentini gente festaiola, a cui piacciono gli spettacoli di popolo e magari un po’ di baccano e confusione. Un po’ poco per una città che si vuole di cultura e di arte, di umanità consapevole.

E, infatti, molto opportunamente, l’autore dell’articolo si premurava subito di raccontarci che quel Carro, che anche oggi è scoppiato secondo tradizione, è l’erede di un lungo tragitto, cominciato fin nel medioevo, che vede immediatamente prima di lui un carro pieno di fiaccole da distribuire nelle case della città, ad accendere la luce e il focolare della famiglia. Tutto questo in continuità con quanto si faceva dall’antichità a Gerusalemme, dove il fuoco nasceva dal Santo Sepolcro. L’usanza gerosolimitana era giunta a noi dopo la prima crociata, in forza di un dono che aveva premiato il coraggio di un nostro concittadino, il primo a issare lo stendardo cristiano sulle mura della città: il dono di tre pietre provenienti del Sepolcro del Signore, da cui da allora viene tratto il fuoco che dà luce nella notte al cero della Pasqua, simbolo di Cristo risorto. E dal cero, che è Gesù, prende fuoco e luce il Carro e, quindi, trae calore e si illumina tutta la città.

Cardinale Giuseppe Betori

Il cardinale Giuseppe Betori

Insomma, fochi e botti sì, ma prima ancora una città che ha cura delle sue famiglie; e, all’origine di tutto, Cristo risorto, riconosciuto come fuoco e luce del mondo. Senza questi passaggi lo Scoppio del Carro scade a folklore; e il folklore sarà buono per altri luoghi, ma non può esserlo per una città come la nostra che, quale culla della lingua, deve saper coltivare con cura tanto le parole quanto i significati. E il significato dello Scoppio del Carro sta tutto nella sua radice, cioè Cristo, e nella presenza di lui nelle nostre case. Non posso fare a meno allora di chiedermi: c’è ancora posto per Cristo in questa città? E c’è attenzione tra noi per la famiglia, nella sua autentica identità e nel suo ruolo esclusivo, di luogo della vita, essenziale per la promozione della società?

La verifica va fatta certamente anzitutto a livello della fede della comunità ecclesiale. E qui mi è d’obbligo rifarmi alle parole pronunciate in questa Cattedrale da Papa Francesco nel novembre del 2015, quando mise in guardia la Chiesa fiorentina e tutte le Chiese d’Italia dalla duplice tentazione del pelagianesimo e dello gnosticismo; vale a dire da una parte la tentazione «ad avere fiducia nelle strutture, nelle organizzazioni, nelle pianificazioni perfette perché astratte», come pure «ad assumere uno stile di controllo, di durezza, di normatività», dall’altra la tentazione «a confidare nel ragionamento logico e chiaro, il quale però perde la tenerezza della carne del fratello» (Discorso al V Convegno nazionale della Chiesa italiana, Firenze 10 novembre 2015). Chiedo oggi alla mia Chiesa quanto ancora siamo imprigionati in questi atteggiamenti, che ci impediscono di dare spazio tra noi a Cristo, al Risorto, e a metterci al servizio degli uomini e delle donne a cui egli ci ha inviati.

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Dal nostro radicamento in Cristo – ancora con le parole del Papa – si apre la possibilità di vivere come Chiesa «umile, disinteressata e beata», che trova la sua forza «nella leggerezza del soffio dello Spirito», consapevole che «la dottrina cristiana non è un sistema chiuso incapace di generare domande, dubbi, interrogativi, ma è viva, sa inquietare, sa animare», che per questo deve proporsi al mondo come una «Chiesa libera e aperta alle sfide del presente, mai in difensiva per timore di perdere qualcosa», ricordando che «vicinanza alla gente e preghiera sono la chiave per vivere un umanesimo cristiano popolare, umile, generoso, lieto; se perdiamo questo contatto con il popolo fedele di Dio perdiamo in umanità e non andiamo da nessuna parte» (Ivi).

Come Chiesa fiorentina vogliamo verificarci su questi orizzonti tracciati da Papa Francesco e per tale motivo abbiamo aperto un Cammino sinodale, per il quale rinnovo l’invito al coinvolgimento di tutti.

Ma la radice identitaria dello Scoppio del Carro interroga anche la città nella sua cultura, nella mentalità condivisa, nel suo progetto. Quanto tutto ciò è ancora illuminato dal Vangelo di Gesù? Non dico questo dal punto di vista della fede, ma da quello del dinamismo di una visione dell’umano che si lascia vivificare dalla sua parola.

L’esame di coscienza può qui fare riferimento a ciò che ha fatto grande la nostra città nel passato e che costituisce l’immagine con cui la si riconosce ancor oggi nel mondo. Vale anzitutto ovviamente per la sua capacità di generare bellezza, trovando nell’attenzione allo splendore della forma l’espressione più adeguata dell’adesione alla verità del contenuto: quanto siamo oggi consapevoli che la difesa dell’immagine della città è intimamente legata alla coerenza dei valori che la animano e non semplicemente a un’estetica del decoro? Vale ancor più per l’attenzione alle forme fragili della vita, che ha fatto grande la nostra tradizione di solidarietà e che oggi è chiamata ad aprire ancor più le braccia dell’accoglienza, del dialogo, dell’incontro con chi viene da lontano, della cura dei deboli, nelle varie forme con cui le povertà aggrediscono anima e corpo di tanti, soprattutto dei piccoli e degli anziani. Vale per la difesa della vita nascente che, dall’Istituto degli Innocenti al Movimento per la Vita, ha visto nei secoli Firenze promotrice di efficaci iniziative di intervento a favore di chi chiede di affacciarsi a questo mondo e che oggi ci chiama a opporsi alla cultura dello scarto imperante nella società occidentale, preoccupata di assicurare il diritto a una morte dignitosa ma dimentica di attenzione al diritto alla vita dignitosa, in specie per i disabili gravissimi o per chi soffre di una malattia rara. Vale per una cultura, quella fiorentina, che vive sì della dialettica che alimenta la vivacità sociale, ma sa ritrovarsi come comunità coesa di fronte alle prove più severe, e oggi quindi sollecitata a combattere la propensione a pensare la società come una somma di individui, ciascuno con i propri diritti da rivendicare, e non come un sistema di relazioni, da custodire e promuovere, a cominciare dalla famiglia fondata sul matrimonio. Vale per una storia che ci ha visti i primi nel mondo a rifiutare la pena di morte e oggi dovrebbe vederci altrettanto impegnati a chiedere che la pena, a cui i rei vengono giustamente condannati, venga scontata senza ledere la dignità delle loro persone e soprattutto sia finalizzata alla loro redenzione. Vale per una città che deve molto a come ha saputo gestire la potenza del denaro, ma che ne ha sofferto anche la caducità delle fortune e soprattutto ne ha saputo combattere gli effetti perversi con il farsi carico dei bisognosi, oggi quindi chiamata a condividere la denuncia ricorrente nelle parole di Papa Francesco di come l’iniqua egemonia delle ragioni del profitto schiacci la vita delle persone. E potremmo continuare a lungo e chiederci quanto l’aver sminuito la nostra frequentazione del Vangelo abbia impoverito la nostra visione del mondo e indotto a squilibri, tensioni, violenze, emarginazioni, poco amore per la nostra stessa città.

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Non ho posto questi interrogativi per indurre allo sconforto. Il Gesù a cui ci riferiamo è il Risorto. Da ogni morte, da ogni negatività si può risorgere e ci si può riscattare: con Gesù, sulla sua strada. Ci sentiamo in questo vicini a Maria di Magdala, che il vangelo ha mostrato affrettarsi al sepolcro del Signore, prima ancora che spunti il giorno, «quando era ancora buio». Il cammino verso la fede nel Risorto comincia nel buio. Maria va nella notte e a mani nude, come nudo e nelle tenebre è il suo cuore, come accade a tutti gli uomini e le donne feriti negli affetti, sopraffatti da mali più grandi delle loro deboli spalle, perduti e confusi di fronte a un futuro di cui non sanno scorgere gli esiti.

È la condizione umana, colta nella sua fragilità, e il vangelo ci dice che in questa condizione, come Maria, possiamo intanto cominciare ad avvicinarci con il nostro cuore alla memoria di Gesù, per rendere più sopportabile il dolore e meno turbato l’animo. Ma avere memoria di Gesù come un fatto del passato non guarirebbe dall’angoscia del cuore. A Maria però si presenta un fatto inatteso: il sepolcro verso cui si è incamminata non è più tale: la pietra «era stata tolta», Gesù non è più lì. I due discepoli, che Maria chiama a condividere la scoperta, entrati nel sepolcro, vedono i segni della sepoltura, i teli e il sudario, ma Gesù è ormai libero dai legami della morte di cui quei panni sono il simbolo. I segni sono chiari, ma da soli non bastano. La svolta decisiva per Maria di Magdala e per gli altri discepoli sarà l’incontro con Gesù, che si mostra loro vivo. Così l’esperienza del Risorto diventa la buona notizia che si propagherà nel mondo intero.

La fede nella risurrezione richiede, accanto al segno del sepolcro vuoto, l’esperienza di un incontro, che pone la persona del Risorto a contatto con i discepoli. Per noi quest’esperienza è riconoscere il volto di Cristo nella potenza dell’amore che tutto trasforma e apre l’orizzonte di un mondo nuovo, il mondo stesso di Dio.

Solo se riconosciamo nel Risorto la vittoria dell’amore di Dio sul male, possiamo infatti sperare, fondatamente, di poter sconfiggere anche i nostri mali. Alla fede nella realtà del Risorto ancoriamo la nostra speranza.

Giuseppe cardinale Betori

 

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