Cinema: morto Gastone Moschin. L’ultimo di «Amici miei». Aveva 88 anni

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Era l’ultimo di «Amici miei», Gastone Moschin. Se n’è andato oggi, 4 settembre, a 88 anni, a Terni, dove si era ritirato fin dagli anni ’90. E’ stato un gigante del miglior cinema italiano, senza mai curarsi di diventarne un mito. La sua vera vita, infatti, era sulle tavole del palcoscenico, i suoi interessi erano distanti anni luce dai suoi anti-eroi cinematografici e la sua passione del mestiere gli faceva preferire una parte di contorno perfettamente incisa ad un protagonista fuori fuoco. Forse la scelta fu casuale, forse incise il fisico: importante e simpatico come nel sorriso che poteva mutare in ghigno, ma certamente abbastanza normale, ai confini dell’ordinario.

A LA NAZIONE – Della fantastica compagnia di «Amici miei» in cui era il goffo architetto Melandri, era l’ultimo sopravvissuto ed aveva partecipato nel 2010 alle feste di compleanno per quello che resta uno dei capolavori della commedia all’italiana. Ed è con quella compagnia che lo conobbi, quando, il 5 maggio del 1982, vennero a girare nella tipografia de La Nazione la scena di «Amici miei» Atto II, in cui Tognazzi riporta il bambino «antipatico» e saccente, al babbo, il capocronista Perozzi, magistralmente interpretato da Philippe Noiret. C’ero anch’io, in tipografia, come potete vedere dalla foto di quella scena. Avevo 32 anni, i capelli, una camicia celeste con cravatta rossa, ed ero redattore della pagina regionale. La stavo guardando nascere sul banco d’impaginazione, quando mi dissero di non parlare. Il ronzìo della cinepresa anticipò l’entrata di Tognazzi. Noiret-Perozzi lo aspettava davanti a un altro banco d’impaginazione. E ricordo la sera, tutti a cena insieme agli attori. Con Renzo Montagnani, fiorentino vero e magistrale interprete, che rideva come un matto anticipando a noi giornalisti alcuni spezzoni del film che stavano girando sotto la guida di Mario Monicelli. Moschin fu insuperabile nella scena della processione del «Gesù morto», a Grassina, e in quella dove stava insidiando le grazie di un ragazza devota, salvata dalle sue brame nientemeno che dall’alluvione dell’Arno. Dal vivo era un signore gentile, educato, cortesissimo. Sulla pellicola faceva sbellicare.

TEATRO – Vorrei continuare con il ricordo personale, ma capisco che non devo rubare la scena alla biografia di un attore che merita un posto importante nel gran libro del cinema italiano. A Roma, dov’era arrivato appena ventenne, si era innamorato del teatro ed ebbe le sue prime opportunità grazie allo Stabile di Genova e poi al Piccolo Teatro di Milano, tra Pirandello e Checov. Approdò al cinema per ragioni … alimentari nel ’55 con la regia di Anton Giulio Majano (La rivale) e poi fu ospite fisso dei grandi sceneggiati televisivi dei primi anni ’60. Intanto, però, nel 1959, ha una seconda opportunità sul grande schermo e non la spreca: ultimo arruolato nella compagnia dei «Soliti ignoti» con il secondo capitolo della saga con la regia di Nanni Loy. Il pubblico e i registi si innamorano di lui per la sua capacità mimetica di nascondersi dietro i primi attori per poi spuntare con un memorabile controcanto ironico, la sua arma vincente.

GERMI – Ecco allora in rapida sequenza: «Anni ruggenti» per Luigi Zampa, «La rimpatriata» per Damiani, «La visita» con Pietrangeli, perfino l’epico «Cento cavalieri» con Cottafavi. Capisce presto che i personaggi negativi, un po’codardi, un po’ marpioni possono dargli spazio per una vasta gamma di tipizzazioni dell’italiano medio ma il suo vero pigmalione sarà Pietro Germi con «Signore e signori» del 1964.
Dalla gavetta teatrale ha imparato l’uso disinvolto degli accenti dialettali con una predilezione per la sua lingua madre, il veneziano di Carlo Goldoni (spesso suo cavallo di battaglia in palcoscenico): il trionfo del capolavoro di Germi è anche il suo. Così nel 1965 gli propongono finalmente una parte da protagonista nei «Sette uomini d’oro» di Marco Vicario: è una parodia (presa sul serio) del cinema d’azione tra i modelli
americani e 007. Il film è un inatteso campione d’incassi e Moschin, nella parte di un genio criminale, ha il suo momento di gloria. Ma continua a praticare la sua arte di cesello sui personaggi minori tra «Le stagioni del nostro amore» di Vancini, «L’harem» di Marco Ferreri e «Sissignore» diretto da Ugo Tognazzi che fin troppo spesso gli ha rubato (involontariamente) lo spazio e la parte. Il cinema d’autore degli anni ’70 lo considera ormai un’icona.

«AMICI MIEI» – Lo ingaggia perfino Francis Coppola per la seconda parte del «Padrino», ma è con «Amici miei» di Mario Monicelli che compie il capolavoro della sua maturità: eterno bambino, trascinato dal cane e dalla moglie fino alla rovina, disegna un personaggio indimenticabile che riproporrà dopo nel secondo capitolo e poi in quello conclusivo. L’ultima apparizione ha il marchio della serialità televisiva con un cammeo in «Don Matteo» nella stagione 2000/2001 mentre il teatro lo ha visto protagonista fino all’ultimo. Ma io lo ricorderò sempre come quella sera in cui girarono in tipografia, eppoi durante la cena: un uomo buono, eternamente impegnato a giocare a nascondino con la sua vera immagine che celava sotto mille maschere davanti alla cinepresa.

Sandro Bennucci

 

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