Imprese straniere, continua il boom: sono 571mila, il 25,8% in più rispetto al 2011

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Indagine Confesercenti: performance incredibile, chiarire dubbi su eventuali irregolarità

Commercio ambulante, food, pulizie e minimarket le attività più gettonate

L’imprenditoria straniera va controtendenza. E mentre gli imprenditori italiani continuano ancora a scontare gli effetti della crisi, le attività condotte da persone nate fuori dall’Italia non smettono di aumentare. A fine 2016 le imprese straniere sono 571mila, con una crescita del 25,8% sul 2011. Una performance nettamente migliore di quella registrata delle imprese italiane, che negli ultimi sei anni sono calate del 2,7%. Andando avanti con questi ritmi, le imprese straniere passeranno dalle 571mila del 2016 a oltre 710mila nel 2021. È quanto emerge da “Gli stranieri e le attività economiche”, un’indagine condotta dall’Osservatorio Confesercenti, elaborata a partire da dati camerali, del Ministero dello Sviluppo economico e di Istat, che traccia dinamica e distribuzione dell’imprenditoria non italiana, con un focus sulle grandi città.

2011 2016 var. % 2011-2016 2021*
Imprese straniere 454.029 571.255 +25,8% 711.898
Imprese italiane 5.656.045 5.502.508 -2,7% 5.480.451

Fonte: elaborazioni Osservatorio Confesercenti su registri CCIAA *dato di previsione

Le città. Il boom di imprese straniere ha coinvolto tutto il territorio nazionale, ma è stato particolarmente forte nelle grandi metropoli e nelle città d’arte: oltre un quinto degli imprenditori non italiani (il 22,5%), infatti, si concentra in soli sette centri urbani: Roma, Milano, Napoli, Palermo, Bologna, Firenze e Torino. Guardando ai numeri assoluti, è Roma la capitale indiscussa dell’imprenditoria straniera, con oltre 48.413 attività non italiane, cresciute di un impressionante 165% negli ultimi sei anni. Seguono Milano (33.496) e Torino (16.660). Ma a registrare tasso maggiore di stranieri è Firenze, con 7.684 imprese, il 17,3% del totale.

Imprese straniere % sul totale della città var. % 2017-2011
Roma 48.413 14,9 51,2
Milano 33.496 16,5 45,1
Torino 16.660 16,1 13,6
Napoli 10.731 9,9 165,4
Firenze 7.684 17,3 22
Palermo 6.017 11,5 54,6
Bologna 5.658 15,6 29,7

 

I settori. A livello macro, i settori con una quota maggiore di imprenditori di nazionalità non italiana sono il commercio all’ingrosso e al dettaglio – con un totale di 206.767 imprese straniere – seguito dall’Edilizia (130.567 imprese) e da Alloggio e ristorazione (43.683).  Tra le attività specifiche più gettonate dagli stranieri, il commercio su area pubblica è al primo posto: gli ambulanti nati fuori dall’Italia sono circa 107.300, il 53,5% del totale. E nei centri urbani la quota è ancora maggiore: nella città di Milano si arriva addirittura all’82,0% e a Palermo all’80,6%. Grandi numeri di imprese straniere anche nella ristorazione e nel servizio bar – dove sono quasi 30mila – e nel food take away, che vede attive circa 9.300 imprese non italiane tra kebab e altri servizi d’asporto, poco di meno delle 9.700 attività di pulizia straniere attive in Italia.

Settore Numero di imprese straniere % sul totale del comparto
commercio ambulante 103.700 53,5
bar 15.600 9,2
ristorazione 14.000 10,7
servizi di pulizia 9.700 20,7
take-away 9.300 24,3
minimarket 7.000 13,5
parrucchieri 6.900 6,6
empori 3.500 36,3
internet point 3.200 58,1
frutta e verdura 1.900 12,7
autolavaggi 1.100 17,2
centri massaggi 1.000 27,9
fiorai 800 5,1

 

Fortissimo il peso degli stranieri anche nei minimarket: se in grandi città del Sud come Napoli o Bari il fenomeno appare contenuto (6-7% delle imprese, la media Italia è 13,5%), in centri come Bologna si arriva a più di due terzi del totale (67,1%). Il Bangladesh è il paese che concentra più imprenditori (quasi un quarto del totale, 22,7%). Seguono con quote distanti Romania (8,0%), Pakistan (6,2%), Cina (5,5%) e India (5,0%). Anche tra gli empori il 36,3% delle imprese sono straniere, ma a Bologna, Genova e Milano si arriva a 66,0%, 64,9% e 63,2%. I cinesi rappresentano il 74,4% di tutta l’imprenditoria straniera, detenendo in pratica il monopolio per questa tipologia di attività, di cui in generale (rispetto al totale italiani e stranieri) costituiscono più di un quarto del totale. Tra i fenomeni ‘emergenti’, invece, si segnalano i centri massaggi, cresciuti dell’89,5% rispetto al 2011, e che oggi sono per il 27,9% appannaggio di imprese stranieri. Ma anche gli autolavaggi sono un fenomeno, vista la crescita del +105,8% rispetto al 2011. Oggi il 17,2% delle imprese è gestito da stranieri, ma a Roma si arriva ad un sorprendente 74,1% (a Palermo è il 2,9%). Sono gli Egiziani la filiera etnica di maggiore rilievo (15,8%), ma incidono in modo significativo anche pakistani (10,2%) e rumeni (9,9%).

“La performance dalle imprese straniere è talmente notevole da essere ai limiti della credibilità, soprattutto se si considera che il periodo analizzato è stato caratterizzato dalla più grande crisi economica vissuta dal Paese negli ultimi 70 anni”, spiega Mauro Bussoni, Segretario Generale Confesercenti. “Rimane però il dubbio che molte di queste attività pratichino forme di concorrenza sleale. Un dubbio corroborato non solo dalle segnalazioni delle altre imprese, che ci arrivano in continuazione, ma anche dai dati fiscali. Nel commercio ambulante, ad esempio, risultano conosciute al fisco solo 60mila delle oltre 193mila imprese iscritte ai registri camerali”.

“Qualche perplessità – continua Bussoni – solleva anche l’elevato livello di turnover, ovvero il rapporto tra aperture e chiusure, che caratterizza le imprese straniere. Mediamente è il 24%, il doppio di quello delle attività italiane. In alcuni settori del commercio e dei servizi è poi ancora più elevato: è il caso dei centri benessere, in cui aperture e chiusure in un anno sono più della metà delle imprese (54%). Ma ci sono livelli di turnover da spiegare anche per frutta e verdura, ambulanti, autolavaggi, attività di alloggio, ristorazione con asporto, bar, lavanderie, barbieri e parrucchieri. Generalizzare è sempre sbagliato, ma di fronte a tante e tali evidenze sarebbe necessario procedere ad un piano di controllo accurato dei settori che, dati alla mano, appaiono più a rischio di irregolarità. Altrimenti si rischia di dare un via libera di fatto a fenomeni di concorrenza sleale”.

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