Pd: Renzi detta la linea per l’Assemblea, il Congresso può attendere

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E’ ancora Renzi a dettare la linea del Pd per l’Assemblea in programma oggi 18 dicembre. Non sottoporre il partito a un altro stress, non dare pretesti alla minoranza per rompere ed evocare scissioni, non perdersi in dibattiti interni sulle regole. Sono le ragioni per cui Matteo Renzi potrebbe decidere di non aprire domani il congresso Pd, ma lanciare una fase di ascolto nel Paese che potrebbe culminare in una conferenza programmatica ed eventualmente primarie in caso di voto anticipato. Il segretario riunirà la prima assemblea del partito dopo le sue dimissioni da premier e a poche ore dal suo intervento tiene ancora le carte coperte.

Perciò nessuno esclude sorprese alla Renzi, ma già tirano un sospiro i sostenitori del congresso ma non subito, prevalente sia nella maggioranza che nella minoranza del Pd. Renzi torna oggi a Roma dopo le giornate trascorse a casa, tra telefonate con i parlamentari e la lettura di migliaia di messaggi su Facebook. Farà una relazione ampia – riferisce chi lo ha sentito – sugli esiti del referendum ma più in generale su quanto fatto dal governo: i risultati ottenuti e gli errori compiuti. Nessuno sconto si aspettano i fedelissimi sulla minoranza che ha esultato per il No ma anche sui rischi di palude da vecchia politica della fase attuale.

Proprio in chiave anti-palude l’ex premier potrebbe aprire formalmente la fase di dialogo sulla legge elettorale, in attesa della Consulta. L’idea della vigilia sarebbe quella di mettere da subito sul tavolo una proposta pesante come il Mattarellum. Non solo, ragionano i renziani, il sistema di voto che porta il nome del presidente della Repubblica ha mostrato di funzionare, ma è anche quello per cui Renzi si è battuto a inizio legislatura (la minoranza ha presentato un Mattarellum 2.0). Certo, non è un sistema che piace a Berlusconi, ma avrebbe il pregio di far ripartire la discussione non dal proporzionale.

Quanto al congresso, il segretario potrebbe decidere di non forzare la mano e non andare alla conta (convocare il congresso subito richiederebbe modifiche statutarie votate da maggioranze qualificate) ma puntare su una campagna di ascolto per l’Italia prima della fase congressuale e eventualmente una conferenza programmatica e, se servirà, primarie per la premiership (magari di coalizione, a seconda della legge elettorale). Questa linea sarebbe stata caldeggiata negli ultimi giorni da esponenti della maggioranza come Guerini, Delrio, Richetti, ma pure Franceschini e Orlando. Mentre non convincerebbe alcuni renziani, che premono perché il congresso si apra subito. Ma il rischio è andare allo scontro con la minoranza che chiede con Roberto Speranza un congresso vero e non un votificio. Una posizione, dicono a microfoni spenti i renziani, che nasce dalla paura: «Speranza si candida alla segreteria ora che ha capito che non si apre subito», dice un esponente di sinistra che sta in maggioranza.

Oggi in assemblea, per la prima volta dai tempi di Letta, Renzi non vestirà i panni di segretario e premier. E farà l’esordio da presidente del Consiglio Paolo Gentiloni. A lui la sinistra Dem, con Pier Luigi Bersani, chiederà di mettere subito mano al Jobs act, a prescindere dall’ammissibilità o meno del referendum abrogativo proposto dalla Cgil. Abolire i voucher e reintrodurre tutele per i licenziamenti: «Se non si vuole chiamarlo articolo 18, si chiami 17 virgola», dice Bersani. Ma sul punto il nuovo premier è stato chiaro, giovedì notte, in conferenza stampa a Bruxelles: «Non abbiamo nessunissima intenzione di cambiare linea sull’articolo 18 e sul Jobs act».

 

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