venerdì, maggio 2, 2025

Siamo alle fasi finali di tutta la complessa riforma della pubblica amministrazione, della quale vedremo (se ci saranno) i frutti nel prossimo futuro. Dopo l’approvazione dei regolamenti di attuazione della riforma i sindacati attendevano il passo iù atteso, quello della firma del nuovo contratto attesa ormai da quasi otto anni.

Adesso pare che i tecnici del ministero abbiano predisposto la bozza finale della direttiva da inviare all’Aran, l’Agenzia che per il governo negozia con i sindacati, necessaria ad aprire il tavolo delle trattative. Il prossimo 8 giugno il documento sarà discusso con i quattro comparti che compongono il pubblico impiego: dal ministero dell’Università per il settore della conoscenza, alle Regioni per la Sanità, fino agli enti locali, oltre al presidente dell’Aran Sergio Gasparrini.

La bozza di direttiva dovrà avere un via libera anche dalla Ragioneria generale dello Stato. Il punto più critico dell’accordo siglato lo scorso 30 novembre, a pochi giorni dal referendum costituzionale, tra l’allora governo Renzi e le rappresentanze dei lavoratori pubblici, prevedeva un aumento lordo medio mensile di 85 euro. ma la ragioneria generale dovrà verificare le coperture.

COPERTURE – La somma copre il periodo 2016-2018, ma l’intera cifra sarà in busta paga solo a partire dal 2018. Per il 2016 è già finanziato un aumento di 10 euro lordi mensili, mentre per il 2017 sono già disponibili i soldi per far salire l’aumento a 40 euro. Manca il resto, che per il solo comparto statale vale complessivamente 1,2 miliardi di euro. Cifra che si raddoppia per pagare l’aumento anche a Regioni, Sanità ed Enti locali, che dovranno trovare i soldi però nei loro bilanci.

DEF – Il problema dei fondi è però relativo. Il governo nel Def si è impegnato a stanziarli nella legge di Stabilità. Qualunque sia l’esecutivo in carica chiamato ad approvarla, difficilmente potrà tornare indietro. Il problema più delicato che sta esaminando la Ragioneria è però un altro. L’accordo di novembre prevede una sorta di clausola di salvaguardia per quei dipendenti pubblici che hanno ottenuto il bonus da 80 euro del governo Renzi e che sono ai limiti della soglia dei 26 mila euro di reddito e che, dunque, con un aumento di 85 euro lordi mensili, rischierebbero di veder svanire gli 80 euro in busta paga e che per giunta sono netti.

La via indicata dalla direttiva per risolvere il problema, è quella contrattuale. In pratica a chi è vicino alla soglia, dovrebbe essere riconosciuta una sorta di indennità che assicuri il mantenimento in busta paga degli 80 euro nel caso in cui l’aumento contrattuale facesse superare la soglia di reddito che dà diritto al bonus.

Ma come si finanzia questa indennità? La questione non è secondaria, anche perché, secondo le stime, servirebbero 500 milioni di euro circa per garantire che nessuno perda il bonus. La prima ipotesi, quella del ministero, è che questi soldi vengano pescati all’interno della somma destinata agli aumenti. La controindicazione è che i redditi più elevati dovrebbero essere penalizzati. Si rischia di far arrabbiare categorie, come i medici o i presidi, che già sono sul piede di guerra e non possono essere scontentati in previsione di una prossima campagna elettorale.

L’alternativa è che si trovino spazi i fondi necessari nelle pieghe del bilancio dello Stato, ma non sarà un’impresa facile.