Franco Zeffirelli: addio all’ultimo genio innamorato di Firenze

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«Ne mancano tanti fra quelli che avrei voluto con me a cena», diceva Franco Zeffirelli in occasione degli ultimi compleanni, dal novantesimo in poi. E il suo pensiero correva a Maria Callas, poi alla coppia Liz Taylor-Richard Burton. Li convinse a recitare sullo schermo «La bisbetica domata». E a lui, Richard, nel drammatico 4 novembre del 1966, chiese una cosa in più: che prestasse la voce per il documentario su Firenze devastata dall’Arno. Burton si presentò parlando piano, per non sembrare invadente: «Perdonerete il mio italiano imperfetto, ma vorrei parlarvi senza traduzioni. Quello che è avvenuto a Firenze mi tocca profondamente… Ora Firenze ha bisogno di tutti, perché Firenze appartiene al mondo». Da ieri,15 giugno 2019, dopo 96 anni e 4 mesi di una vita andata al massimo, Franco Zeffirelli ha raggiunto i suoi grandi amici. E ora starà già pensando a nuove, grandiose regie, a nuove, costosissime scenografie, a nuovi film. Perchè non si fermava mai, perchè era un vulcano d’idee e d’iniziative. In una parola: un genio in movimento. Ultimamente bloccato per colpa di gambe che non rispondevano più ai suoi voleri. E limitato nella voce, diventata un sibilo, dopo essere stata forte, addirittura tonante, dietro la macchina da presa o nel ballatoio di un teatro. O aver gridato, da grande tifoso della Fiorentina, contro la Juventus e l’avvocato Agnelli. Fino a rischiare denunce e querele.

HAREM – Conobbi Franco Zeffirelli 40 anni fa, in occasione di una partita del Calcio storico. Lui arrivò accompagnato da un’attrice, ma senza biglietto. Lo fermarono alla porta. Io, cronista de La Nazione, avevo il pass. E corsi in tribuna a chiamare il presidente del Comitato del Calcio, l’assessore Fabrizio Chiarelli. Che naturalmente scese di persona ad accogliere Zeffirelli e la sua accompagnatrice. Da quel momento diventammo grandi amici. E mi regalò, qualche anno dopo, un’eccezionale primizia per il mio lavoro: l’annuncio che avrebbe girato a Firenze il Tè con Mussolini, ossia la storia della sua vita. Detti la notizia in prima pagina: la Nazione fece un colpo mondiale. Ma molte altre sono state le occasioni in cui ho dovuto dirgli grazie. Lo faceva per amicizia, lo faceva per il giornale della sua città. Tante volte, anche a casa sua, a Roma, sull’Appia Antica, ci siamo parlati e da quattro chiacchiere nasceva un’intervista. Se chiedevo di dire in tre parole chi pensava di essere, la risposta era: «Sono un sultano in un harem di tre donne: Opera, Teatro, Cinema…». E chi era da bambino? «Un aborto mancato. Avrei dovuto essere cancellato perché nascevo da due persone non sposate. Che s’innamorarono pazzamente. Il mio cognome? La mamma lo scelse perché, secondo la tradizione dell’ospedale degli Innocenti, che si tramandava dai tempi di Lorenzo Il Magnifico, ogni giorno della settimana corrispondeva a una lettera. Quando nacqui io toccava alla z. Mia madre, oltre a essere una grande sarta era una pianista, appassionata di Mozart, con farfalle e zeffiretti. All’impiegato comunale comunicò che voleva chiamarmi Franco Zeffiretti. Quello non capì bene, e, invece della doppia T, mise una doppia L: Zeffirelli».

LADIES – Ebbe la sfortuna di non avere una famiglia, ma trovò alcune donne meravigliose, inglesi a Firenze, pronte ad amarlo e a educarlo alla cultura, all’arte e ai valori di libertà e tolleranza che sono alla base delle democrazie anglosassoni. A quelle ladies, che dimoravano a Firenze negli anni opachi del conformismo fascista, Zeffirelli dedicò, appunto, Un tè con Mussolini. Un film? Sì, ma anche un segno di riconoscenza. Perché grazie a loro, alle ladies, raffinò qualcosa che lo ha distinto anche davanti alla regina d’Inghilterra che lo fece baronetto. Qualcosa che non si compra e che risalta anche se si è nati nella litigiosa Firenze, se si ha una mente geniale e un carattere tempestoso: qualcosa che si chiama stile.

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COMBATTENTE – Nonostante che le gambe non lo reggessero come un tempo, e che gli acciacchi aumentassero le difficoltà, Zeffirelli è rimasto, fino in fondo, un combattente, uno da prima linea: contro la pachidermica lentezza del comune di Firenze; contro la pignoleria frenante dei burocrati; contro le picche di qualche politico che vorrebbe fare a modo suo. Mi torna in mente, ancora, una scena del film Un tè con Mussolini: quando al giovane attore Baird Wallace, che si avvicinava titubante al sidecar, il Maestro, dietro la macchina da presa, lo spronava: «Monta al volo, con piglio deciso. Lui non pensava: si lanciava». Ecco, diceva lui, Franco Zeffirelli, tratteggiando con professionale lucidità il personaggio del copione. Ma avrebbe dovuto dire io. Perché il film era la sua storia: l’avventura di un figlio illegittimo nato da genitori soltanto amanti e non sposi. Un’avventura affascinante, ma al tempo stesso irta di ostacoli e pericoli: a cominciare dal momento in cui, grazie alla meravigliosa educazione delle ladies inglesi che lo avevano allevato, decise di fare la sua parte nella guerra di liberazione al fianco delle truppe scozzesi. Di cui divenne fondamentale interprete. Poi giustamente decorato.

TEATRO – Franco Zeffirelli era un mito, un genio, ma anche una persona di uno straordinario dinamismo. Poteva esplodere, il novantaseienne Zeffirelli, seguitando a parlare di Firenze, dell’Arno e dell’alluvione. Non gli piaceva il nuovo Teatro dell’Opera, là alle Cascine. Lo considerava una specie di brutta scatola da scarpe. Per anni aveva tentato di progettarlo lui, un teatro come si deve. L’ostruzionismo di una politica troppo spesso miope glielo aveva impedito. Così come s’infuriò quando la stessa politica non volle concedere a Oriana Fallaci gli onori che avrebbe meritato. Comprò lui, Zeffirelli, un Fiorino d’oro e lo depose sulla tomba. Eppoi gli intoppi e gli impicci per il suo Museo, ossia la casa per custodire, a Firenze, la sua eredità. Prima di decidere la concessione del vecchio tribunale di piazza San Firenze ce ne volle. Cominciai a scrivere questa storia nel 2010, su La Nazione. Zeffirelli aveva offerte da tutto il mondo: New York, Parigi, perfino Mosca e, in Italia, Roma. Ma lui voleva Firenze. E io, attraverso il mio vecchio giornale, feci da collegamento fra lui e Palazzo Vecchio per riannodare un filo che sembrava irrimediabilmente tagliato. Per ricucire il dialogo, devo ammetterlo, ci mise del suo Matteo Renzi. Che mi scrisse una lettera aperta da pubblicare sul giornale, in cui pregava Zeffirelli di considerare l’offerta fiorentina. Poi arrivò Dario Nardella. Finalmente Palazzo Vecchio accelerò le pratiche. Ma era tardi: Zeffirelli riuscì, nel 2015, a venire a Firenze per dare indicazioni. Poi le sue condizioni di salute peggiorarono. E non potè fare il regista di se stesso. Dava indicazioni a Pippo, il figlio adottivo. Mentre Luciano, l’altro figlio adottivo, lo accudiva a Roma e cercava di rendere meno duro il suo calvario, cioè l’impossibilità d’essere a Firenze. Dove ora ritorna. Per essere onorato nel Salone de’ Cinquecento e per riposare alle Porte Sante, insieme ai grandi contemporanei: Annigoni, Pratolini, Mario Cecchi Gori, Spadolini.

PAPA – Avrei da aggiungere tante altre storie, altri aneddoti, altre frasi. Mi limito a un altro grazie: quando lasciai La Nazione, dopo 41 anni di lavoro, e diventai direttore di Firenze Post, il primo gennaio 2014, Zeffirelli volle farmi un altro regalo: ossia la notizia, in esclusiva, che avrebbe regalato a Papa Francesco il libro tratto dal film sul Poverello d’Assisi. Mi disse: «In Sud America, quando andai a presentare Francesco, tradotto in «Francisco», venni accolto da folle in delirio. Quarantamila persone a Lima. E un bagno di folla a Buenos Aires, dove sicuramente incrociai Bergoglio, però senza averci parlato. È vero che, in genere, i film nascono dai libri. Ma io ho voluto il percorso inverso: il libro fatto con le immagini della pellicola». Che Bergoglio apprezzò moltissimo.

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Sandro Bennucci

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