Pax fiscale anche con il Vaticano. Per eseguire la sentenza della Corte Ue

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Una pax fiscale tra Italia e Vaticano per risolvere la grana degli arretrati Ici che la Chiesa deve allo Stato per il periodo 2006-2011. Ecco l’ipotesi alla quale sta pensando il governo alle prese con la grana piombata una settimana fa su Palazzo Chigi quando la Corte di giustizia Ue ha riaperto il caso dei rapporti tra Stato e Vaticano in materia di tasse.

I giudici della Corte hanno infatti annullato la precedente decisione della Commissione del 2012 e la sentenza del Tribunale Ue del 2016 che avevano stabilito «l’impossibilità di recupero dell’aiuto a causa di difficoltà organizzative» nei confronti degli enti non commerciali, come scuole, cliniche e alberghi. Di conseguenza hanno chiesto all’Italia di recuperare i soldi mai versati affermando che i problemi connessi all’attività di contrasto all’evasione fiscale costituiscono mere «difficoltà interne».

La richiesta nei confronti di Roma è chiara: dovete farvi restituire i soldi e per questa ragione, il governo si sta muovendo ed è al lavoro per individuare il meccanismo attraverso il quale recuperare l’enorme credito. In ballo ci sarebbero, spiegano fonti del ministero dell’Economia, 4,8 miliardi relativi a ben 6 annualità. Una somma che potrebbe essere, appunto, fortemente ridotta utilizzando gli strumenti della pace fiscale che il governo sta mettendo a punto collegandola alla legge di Bilancio. Dunque: rottamazione, definizione agevolata, taglio del capitale, sconto o annullamento di sanzioni e interessi legali e di mora. Le ipotesi sono tutte aperte ma, viene fatto filtrare, la soluzione non è prossima. Serve infatti la collaborazione con i commissari alla Concorrenza di Bruxelles e con i Comuni (che sono i titolari dell’imposta sugli immobili).

Tuttavia, considerata la delicatezza del dossier, occorre ovviamente anche un negoziato con il Vaticano che, secondo alcune stime, avrebbe tra le mani il 20% del patrimonio immobiliare italiano. Nel mazzo, tra l’altro, figurerebbero 9 mila scuole, 26 mila tra chiese, oratori, conventi, campi sportivi e negozi e 5 mila tra cliniche, ospedali e strutture sanitarie e di vario genere. E il punto nodale, di non facile soluzione, è riuscire a distinguere chi svolge attività commerciale da chi non le pratica.

Resta il fatto che l’accordo con il quale il governo Monti, nel 2012, si illudeva di aver chiuso la pratica è ormai inutilizzabile ed ora sia riapre un’altra tappa nella lunghissima vicenda delle esenzioni fiscali garantite agli immobili della Chiesa. La vicenda è complessa: l’Ici (Imposta comunale sugli immobili), poi sostituita dall’Imu, è stata introdotta nel 1992, esentando dal suo pagamento gli enti non commerciali. Fino al 2004 questa esenzione, di cui non beneficiava solo la Chiesa cattolica, ma tutto il vasto mondo non profit, ha sollevato un contenzioso fino a quando una sentenza della Cassazione, relativa a un immobile di proprietà di un istituto religioso utilizzato come casa di cura e pensionato per studentesse, ha affermato che per beneficiare dell’esenzione sono necessari tre requisiti tra cui quella più importante, e cioè che gli immobili venissero usati a fini non commerciali. L’esenzione fu però allargata nel 2005 dal governo Berlusconi per includere tutti gli immobili di proprietà della Chiesa, anche quelli a fini commerciali. Questo allargamento fu poi giudicato dalla Commissione europea come un aiuto di Stato, perchè danneggiava le attività commerciali non di proprietà della Chiesa.

Adesso la sentenza della Corte di Giustizia Ue ha causato il ribaltone, del quale il Governo deve trarre le conseguenze.

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