Alluvione: l’Arno ci minaccia come nel ’66. Scienziati allarmati. Politici infastiditi

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Da decenni, quando si avvicina il 4 novembre, mi trasformo in un pungolo, o in rompiscatole, per governanti e amministratori: ricordando con puntualità (prima su La Nazione e ora sul nostro e vostro Firenze Post) che l’Arno continua a minacciare Firenze e due terzi della Toscana. Ora addirittura con maggiore potenzialità distruttiva rispetto al 1966. Il cambiamento climatico, con la devastante capacità delle bombe d’acqua (inventai io questa definizione, insieme ai professori Maracchi e Nardi, e da allora è entrata nel linguaggio comune universale), cioè le piogge violente e concentrate, ha aumentato il rischio. L’Arno ci minaccia, come prima e più di prima, semplicemente perchè dal 1170 (è l’anno della prima alluvione storicamente registrata) eppoi nell’ultimo mezzo secolo, non abbiamo fatto nulla per poter fermare i 200 milioni di metri cubi d’acqua che il fiume, nella sua massima piena, rovescia sulla città e su buona parte della regione. Negli anni ’70 del secolo scorso vennero abbassate le platee di Ponte Vecchio e Ponte Santa Trinita. Una quindicina d’anni fa è stata completata la diga di Bilancino sulla Sieve (costruita però troppo in alto per frenare davvero il più irruento affluente dell’Arno). A Figline è stata quasi ultimata la cassa d’espansione di Pizziconi. Poi è in corso di progettazione l’innalzamento della diga di Levane. Stop. Tutto qui. E’ pochissimo.

Piazza Signoria inondata, il 4 novembre 1966

SCIENZIATI – A queste considerazioni, che nella mia veste di cronista, ossia di osservatore dell’Arno (ho scritto anche un paio di libri sull’argomento), faccio da tempo, si sono finalmente aggiunti gli autorevoli e allarmati pareri degli scienziati riuniti in un convegno organizzato dall’Università di Firenze. Intendiamoci: loro, gli esperti, conoscono da sempre la situazione. Come il sottoscritto. Che non si stupì, qualche anno fa, quando la protezione civile nazionale inserì una nuova, eventuale alluvione dell’Arno, al secondo posto nella classifica dei grandi rischi di calamità naturali, subito dopo una possibile eruzione del Vesuvio. Le conclusioni degli studiosi sono ben riassunte dalle frasi del professor Giovanni Seminara, accademico dei Lincei e grande conoscitore dell’Arno: «Dopo l’alluvione del ’66 – ha spiegato – è stata fatta un’opera utile, cioè l’abbassamento delle platee dei ponti di Santa Trinità e Ponte Vecchio, un’opera che ha aumentato la capacità di deflusso nella città di qualche centinaio di metri cubi al secondo, quindi il rischio si è un pochino ridotto. Con molta sincerità e onestà intellettuale devo dire che, da allora, sostanzialmente non si è fatto più nulla se non pianificare, pianificare, pianificare, e modificare le pianificazioni. E siamo ancora fermi, per non dire immobili. La realizzazione di quattro casse di espansione nel Valdarno e l’innalzamento della diga di Levane avverrà nel giro di decenni, e comunque al termine di questo processo Firenze non sarà fuori da situazioni di rischio. Adesso non posso entrare in questioni tecniche, ma le valutazioni che sono state fatte non prendono più in considerazione come piena paradigmatica quella del ’66, e quelle opere non ridurranno il rischio a Firenze di più di 100 metri cubi al secondo sui 4.100 che erano stati stimati dell’alluvione del ’66». Che cosa si fa o non si fa? Seminara è tranciante: «Oggi viviamo una situazione in cui il capo dell’Unità di missione del Governo ha esplicitamente usato a Roma, un anno fa, all’Accademia dei Lincei, l’espressione Whatever it takes, che significa, ditemi di quanto avete bisogno e io ve lo do. Siamo nel paradosso in cui qualcuno dice che è disponibile a finanziare delle opere, e nessuno chiede di fare quelle opere. Non ci si rende conto che non impattare sul territorio non significa non fare delle opere: oggi bisogna fare le opere giuste. Bisogna cercare di evitare di fare opere inutili, ma quando le opere sono necessarie bisogna farle: questo il punto, e su questo purtroppo non c’è consenso a livello politico. Il mondo politico si fa trascinare da certi movimenti che hanno le migliori finalità, ma che qualche volta fanno il male del Paese».

Via Panzani inondata dall'Arno, il 4 novembre '66: Giannini mise il microfono fuori di finestra per far capire il disastro ai vertici Rai

Via Panzani inondata dall’Arno, il 4 novembre ’66

POLITICI – Un anno fa, durante le celebrazioni del cinquantesimo anniversario dell’alluvione del ’66, l’allora capo del governo, Matteo Renzi, era impegnato alla Leopolda a promuovere il referendum costituzionale il cui esito, il 4 dicembre 2016, lo avrebbe costretto a dimettersi. Non si curò troppo delle celebrazioni. Nemmeno Erasmo D’Angelis, responsabile dell’ufficio di Palazzo Chigi che dovrebbe prevenire le catastrofi naturali, disse molto sulle opere da fare. Oggi siamo daccapo. Dario Nardella, sindaco di Firenze, ha detto ripetutamente che il rischio zero non esiste. Ovvio: se non fai nulla, o quasi, il rischio ci sarà sempre. Mentre Enrico Rossi, che ha dovuto affrontare diverse alluvioni durante i suoi due mandati alla presidenza della Regione, si para dietro le opere progettate (appunto le casse d’espansione di Figline, in corso d’opera o ancora da progettare) e si difende dalle accuse d’immobilismo dicendo che non ci sono finanziamenti statali. Nemmeno per innalzare la diga di Levane. So perfettamente, anche per la mia lunghissima esperienza professionale, che ai politici piace più tagliare nastri che portare avanti faticosi progetti. Ma chi ha l’obbligo di preoccuparsi di Firenze e della Toscana (governo di Roma e amministrazioni locali) sa perfettamente che è in gioco la vita di tre milioni e seicentomila persone e un patrimonio d’arte e cultura unico al mondo e che, comincia, anche senza alluvione, a dare preoccuparsi segnali di cedimento, vedi il capitello che ha ucciso il turista spagnolo in Santa Croce. Gli scienziati e, modestamente, il sottoscritto, continuano a delineare con certezza il pericolo. Nessuno smentisce, ma chi ha il potere di fare qualcosa mostra fastidio. Intanto l’Arno passa davanti agli Uffizi e corre verso Marina di Pisa. Sembra piccolo e inoffensivo. In realtà, come ho sempre detto, è un torrente con sfrenate ambizioni di fiume: prende acqua da una sola montagna. Quando piove sul Pratomagno si gonfia. Quando non piove va in secca. E’ così da sempre. Ma ogni tanto dà di fuori. In maniera devastante.

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Sandro Bennucci

 

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