Giorgio La Pira: 70 anni fa Firenze lo volle sindaco. Ebbe un amico e un nemico: entrambi si chiamavano Enrico Mattei

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C’erano ancora le macerie della guerra, a Firenze, il 5 luglio 1951, quando Giorgio La Pira diventò sindaco per la Dc, sconfiggendo Mario Fabiani del Pci. Quelle più visibili, con case sventrate dalle bombe, erano in via de’ Bardi, vicino al Ponte Vecchio, e in via Pietrapiana, dove nello spazio appena liberato dai calcinacci, poi occupato dal palazzo delle Poste, tirava su il tendone il circo Gratta. A distanza di tanto tempo, La Pira è non solo un raro esempio di politico in odor di santità, ma addirittura, per Firenze, resta il sindaco simbolo. Per motivi professionali, io i sindaci li ricordo tutti, naturalmente quelli che ho conosciuto: partendo da Bargellini, il sindaco dell’alluvione del 1966. Ma invito i cittadini a rimetterli in fila, uno per uno, con tanto di appartenenza politica. Impossibile. Nomi e date sicuramente si accavallano e si confondono. Con La Pira non è così. Lui buca la memoria: vive ancora ricordi delle famiglie. Per le cose vere e tangibili, capaci di sfidare il tempo: come il latte distribuito gratuitamente nelle scuole. Operazione resa possibile con la nascita della Centrale del latte municipalizzata, ottimo veicolo per far circolare il prodotto degli allevatori della zona e raggiungere tutti i bambini, indistintamente, senza che nessuno si sognasse di chiedere alle famiglie la dichiarazione dei redditi. Ed è rimasto nella memoria popolare un altro appuntamento con la gente: la messa della domenica nella Badia Fiorentina, dove alla fine si dava il pane ai poveri e anche a tutti coloro che lo volevano. Grandi ceste piene di forme a seme, i famosi semel: venivano dal forno, non a caso, di Semellino, in via de’ Tavolini.

PIGNONE – Ma il suo che incise di più, fino a caratterizzarlo politicamente, e perfino a isolarlo sia a destra che a sinistra, risale al 1953: quando il colosso tessile Snia Viscosa, annunciò il licenziamento dei 1.700 dipendenti. Fu un colpo tremendo per La città: i lavoratori occuparono gli stabilimenti. La Pira scese in campo, coinvolgendo la politica e La Chiesa per salvare La fabbrica ed il lavoro. Andò alla messa in fabbrica, per marcare la sua vicinanza agli operai disperati. E chianmò Enrico Mattei, l’amico, anche lui cattolico impegnato, che era presidente dell’Eni, dopo aver preso l’Agip come commissario liquidatore, nel 1945, trasformandola in una multinazionale. Mattei morirà carbonizzasto nell’aereo aziendale nel 1962, si disse per colpa di un attentato. Ma questa è un’altra storia. Torniamo a La Pira che al cattolico Enrico disse semplicemente: «Comprerai il Pignone. Lo so, me l’ha detto lo Spirito Santo…». Una leggenda? Sta di fatto che mesi dopo, nel 1954, il Pignone cambiò davvero proprietà: passando ad Eni, e diventando Nuovo Pignone. Per per finire dopo La privatizzazione del 1994 alla multinazionale General Electric e oggi punto di forza sul gas del gruppo Baker Hughes, presente su tutti i mercati del mondo.

ISOLOTTO – L’altra grande, ancora di stampo social popolare, è datata sempre 1954: quando consegnò i primi mille appartamenti del piano Ina-casa all’Isolotto, facendo nascere un nuovo, lindo e gradito pezzo di città. Con edifici di pochi piani, tirati su con materiali tradizionali, non casermoni, tanto verde, strade piccole, una realtà ben diversa da quelle che saranno le case minime di via Aretina, di Rovezzano, di Novoli, per non parlare dei palazzoni tipo astronave di Sorgane. Un trionfo, certo, ma anche un interrogativo politico che dette corda ai suoi avversari: La Pira era democristiano o comunista? Di sicuro si trovò inviso ai cosiddetti «liberal democratici» e in particolare all’Enrico Mattei «nemico», ossia il grande giornalista che diresse La Nazione. Che lo attaccò furiosamente. Nato nel 1904 a Pozzallo, in provincia di Ragusa, e trasferitosi successivamente a Firenze dove aveva ottenuto giovanissimo la cattedra universitaria, La Pira apparteneva con Giuseppe Dossetti e lo stesso Fanfani alla generazione dei professorini, formatasi negli anni fra le due guerre fra la Cattolica e la redazione del Frontespizio e confluita poi nella corrente democristiana di “Cronache sociali”. Ma, a differenza del primo, non fu mai vinto dalla tentazione di ritirarsi dalla politica e, diversamente dal secondo, non aderì al fascismo, a parte alcuni articoli giovanili influenzati da un’infatuazione dannunziana. Critico del totalitarismo nella rivista Principi, dopo la guerra fu deputato alla Costituente e sottosegretario al Lavoro, ma nel ‘51 fu candidato a primo cittadino di Firenze, in opposizione al sindaco uscente, il comunista Fabiani. In stretti rapporti col cardinale Elia Dalla Costa e col fondatore della Madonnina del Grappa don Facibeni, si presentò con un programma fermamente anticomunista, ma ricco di aperture sociali, e vinse grazie a un largo consenso tra i ceti popolari.

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COINFERENZE DI PACE – Secondo La Pira, l’alternativa non era fra stato e mercato ma, all’interno dello Stato, fra mercato e sociale. Questo rese la sua figura incompresa a destra, sia pure con rare eccezioni, e invisa dalla sinistra clerico-comunista. Lo stesso La Pira si prestò in più di un’occasione a tali fraintendimenti, abbinando a una straordinaria lucidità intellettuale, che gli derivava dalla formazione teologica e scientifica di studioso del diritto romano, un’imprevedibilità di comportamenti che fece, come detto, la disperazione dei suoi amici romani e la gioia dei suoi avversari: appunto di Enrico Mattei, direttore de La Nazione. Ma pareva sguazzare, La Pira, nell’acqua di mezzo, anche in politica estera: facendo di Firenze il punto d’incontro fra i popoli in lotta. Grazie a una schiera di fidati collaboratori (citerò Fioretta Mazzei, votata come lui alla politica e al sociale e rinunciando, di fatto, a una vita privata e a una famiglia, e Mario Primicerio, che poi, a sua volta diventerà sindaco di Firenze con una giunta di centrosinistra) seppe fare di Firenze il faro del mondo: organizzò conferenze di pace fra ebrei e palestinesi, fra vietnamiti e americani. E ancora: gemellò Firenze con varie città, fra cui la marocchina Fez. Ma non fu un caso. Il 17 giugno 1957, preso atto dell’impossibilità di proseguire l’attività di sindaco per la mancanza di una maggioranza sufficiente ad approvare il bilancio, La Pira si dimise con l’intero consiglio comunale. Lo stesso giorno venne nominato un commissario prefettizio. Nonostante ciò, La Pira portò a compimento l’impegno assunto con il Re del Marocco, Maometto V: chiamare a Firenze tutti i popoli mediterranei in Palazzo Vecchio per favorire – spes contra spem – la loro pacificazione. A questo fine intraprese un pellegrinaggio in Israele, Giordania ed Egitto e fece una serie di viaggi a Parigi, Rabat, Tunisi, Beirut. Il 17 settembre 1957, festa delle Stimmate, accompagnò al Santuario della Verna il figlio secondogenito di Maometto V, principe Moulay Abdallah, «per restituire la visita che San Francesco fece al Sultano d’Egitto e per ricordare il duplice tentativo di Francesco di incontrare il Sultano del Marocco».

VIETNAM – La lunga avventura di La Pira sindaco di Firenze si concluse nel 1965. Nel mese di marzo lasciò definitivamente Palazzo Vecchio. Ma questo non gli impedì di farsi promotore di una soluzione politica della guerra del Viet Nam. In stretta collaborazione con Amintore Fanfani, Ministro degli Esteri, e con l’Ambasciatore di Polonia, Wilmann, si recò a Londra dove, alla Camera dei Comuni, incontrò numerosi parlamentari laburisti con i quali concordò di tenere a Firenze un «Symposium Internazionale per la pace in Viet Nam». Il Simposio si tiene in Aprile al Forte di Belvedere, ad esso partecipano parlamentari e personalità politiche inglesi, francesi, sovietiche, italiane ed alcuni esponenti di organismi internazionali. Il Simposio si conclude con un appello firmato da La Pira e Lord Fenner Brockway e inviato ai governi garanti degli Accordi di Ginevra sul Viet Nam del 1954 e alle parti coinvolte nel conflitto. All’appello rispose Ho Chi Minh, Presidente della Repubblica del Nord Vietnam, indicando i punti indispensabili per ristabilire la pace. Dopo una meticolosa preparazione, La Pira ricevette un sostanziale gradimento da tutte le parti in conflitto e quindi, ad ottobre, partì per Hanoi, insieme al già citato Mario Primicerio, attraverso Varsavia, Mosca, Pechino. L’11 novembre incontrò Ho Chi Minh e il primo ministro Pham Van Dong. Tornò in Italia con una proposta di pace consegnata ufficialmente al Presidente dell’Assemblea Generale dell’ONU di allora, che era Amintore Fanfani. Iniziativa che venne fatta fallire da anticipazioni apparse su giornali amricani. Ma la pace, alle stesse condizioni offerte dalla missione di La Pira, sarà raggiunta otto anni più tardi. Però al prezzo d’immense devastazioni e centinaia di migliaia di vittime. Che avrebbero potuto essere risparmiate.

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LA NAZIONE – Nella stessa Dc, La Pira, era visto come un pesce rosso nell’acquasantiera: e venne criticato aspramente dalla costola sinistra dello scudocrociasto, quando, nel 1969, si schierò dalla parte della gerarchia della Chiesa, impersonata dall’allora cardinale Ermenegildo Florit, contro don Mazzi, il prete ribelle dell’Isolotto, il pezzo di Firenze che lui aveva voluto far nascere una quindicina d’anni prima. E con Enrico Mattei direttore de La Nazione come andò a finire? Il caso li fece incontrare, e addirittura cenare insieme e dormire sotto lo stesso tetto, ossia il convento di San Marco, in un momento terribile: la sera del 4 novembre 1966, con Firenze devastata dall’Arno. La Pira era con i monaci, che accolsero la colonna militare in arrivo da Roma, guidata dal ministro Pieraccini, per portare aiuti in città. Mattei non potè raggiungere La Nazione e si fermò in San Marco. La Pira e il grande direttore parlarono a lungo, anche delle loro divisioni. Ma si trovarono d’accordo su un punto: spingere il presidente della Repubblica, Saragat, a venire a Firenze. E a impegnarsi per Firenze. Ossia la città che il 5 luglio del 1951, settant’anni fa, aveva scelto La Pira per cancellare le macerie della guerra e agganciare la ricostruzione, e che in quel momento doveva risollevarsi dal nuovo dramma: l’alluvione.

Sandro Bennucci

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