Crollo ponte di Genova: indagini chiuse. «Nella pila 9 trefoli lenti dal ’90»

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Indagini chiuse per il crollo del ponte Morandi, a Genova, dove il 14 agosto 2018 morirono 43 persone. La Guardia di Finanza ha avuto l’incarico di notificare gli avvisi agli indagati. L’inchiesta è durata quasi tre anni nel corso dei quali sono stati fatti due incidenti probatori, uno sullo stato di salute del viadotto e un secondo sulle cause vere e proprie del crollo, che si è chiuso a fine febbraio.

I pubblici ministeri Massimo Terrile e Walter Cotugno, insieme all’aggiunto Paolo D’Ovidio, avevano indagato 71 persone più le due società Aspi e Spea (la controllata che si occupava della manutenzioni) tra ex vertici e tecnici delle aziende, ex e attuali dirigenti e tecnici del ministero delle Infrastrutture e del provveditorato.

La procura ha aperto fascicoli per i falsi report sullo stato di salute di altri viadotti, sulle barriere fonoassorbenti pericolose, fino alle gallerie dopo il crollo nella Bertè il 30 dicembre 2019. In tutti i filoni di indagine sono coinvolti l’ex ad di Aspi Giovanni Castellucci, finito anche ai domiciliari poi tramutati in interdittiva per un anno, l’ex numero due Paolo Berti e l’ex numero tre Michele Donferri Mitelli.

Già nel 1990 e nel 1991, si legge nelle carte dell’inchiesta, Autostrade Spa sapeva che nella pila 9, quella crollata il 14 agosto 2018, vi erano «due trefoli lenti e due cavi scoperti su quattro». E’ quanto emerge dall’avviso di conclusioni indagini che gli investigatori del primo gruppo della guardia di finanza sta notificando in queste ore ai 69 indagati più le due società Aspi e Spea. Le accuse sono di attentato alla sicurezza dei trasporti, crollo colposo, omicidio colposo e omicidio stradale e rimozione dolosa di dispositivi per la sicurezza dei posti di lavoro.

La pila 9 del ponte Morandi venne controllata da vicino, dal 1991 al giorno del crollo, soltanto nell’ottobre 2015. Lo scrivono i pm nell’avviso di conclusioni indagini notificati da questa mattina per il crollo del viadotto autostradale. Quei controlli, aggiungono i magistrati, vennero fatti sui soli stralli lato mare e soltanto in orario notturno; la conseguente relazione evidenziava chiarissimi segnali d’allarme sulle condizioni degli stralli, accertando che tutti i trefoli che era stato possibile esaminare tramite i carotaggi risultavano scarsamente testati e si muovevano con facilità facendo leva con uno scalpello.

Inoltre, sempre secondo i magistrati, Spea svolgeva tali attività di sorveglianza e di ispezione – nella piena consapevolezza e piena accettazione della società – con modalità non conformi alla normativa vigente e, comunque, lacunose, inidonee e inadeguate in relazione alle specificità del viadotto Polcevera; in particolare, le ispezioni visive degli stralli venivano sistematicamente eseguite dal basso, mediante binocoli o cannocchiali, anziché essere ravvicinate a distanza di braccio e non erano pertanto in grado di fornire alcuna informazione affidabile sulle condizioni dell’opera. Spea, essendo controllata di Aspi, era "inevitabilmente condizionata, nello svolgimento delle sue attività, da quel rapporto di dipendenza societaria, economica e contrattuale, tanto da attenuare e ammorbidire sistematicamente i contenuti delle proprie relazioni in modo da renderle gradite alla committente, sottovalutando la rilevanza dei difetti e delle criticità accertate.

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