Libri, Luis Sepùlveda: a un anno dalla morte, la sua vita diventa una favola. Con il gatto della gabbianella

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Come mi accadde per Franco Zeffirelli, con il quale nacque una profonda amicizia durata oltre trent’anni, anche Luis Sepùlveda lo conobbi, a Firenze, a una partita del Calcio storico. Lo incontrai lì, sulle tribune di piazza Santa Croce: sapeva delle origini del gioco fiorentino della palla, e della partita dell’assedio del 1530, ma era curioso. E anche entusiasmato dai costumi e dal corteo, eppoi sorpreso dalla carica agonistica (la lotta e anche i pugni sono nelle regole) dei calcianti. Lo trovai piacevole, cordiale, per nulla supponente e poco propenso ad esibire la fama che, giustamente, lo accompagnava. Lo feci parlare un po’ e capii perchè aveva saputo conquistare e affascinare lettori in tutto il mondo. Lui, guerrigliero, prigioniero politico, giornalista, ecologista, in esilio, bambino solitario che ne stava a pensare dentro a un cesto di vimini usato per il bucato, ragazzo che a 13 anni voleva fare il calciatore e giovane innamorato che regalava caramelle.

A un anno dalla sua morte, avvenuta a 70 anni, per colpa del coronavirus, il 16 aprile del 2020, evento che mi addolorò, sono stato incuriosito dalla pubblicazione di Ilide Carmignani (traduttrice italiana di Lucho, come lo chiamavanoi gli amici) che ha dato alle stampe la «Storia di Luis Sepùlveda e del suo Gatto Zorba», in libreria dall’8 aprile per Salani. Per l’autore di «Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare», la Carmignani si fa straordinaria biografa, ne racconta la vita, gli aneddoti, la passione per i gatti, i veri ispiratori della sua straordinaria vena letteraria. Sì, scriveva sempre con i gatti vicino.

«Spero che questo libro sia un ponte per portare i giovani da Lucho, per farglielo conoscere anche come uomo e come bambino, come ragazzo visto che lui non c’è più», ha dichiarato la Carmignani che ha lavorato per 26 anni con Sepùlveda, del quale era grande amica. «E’ lui che parla, è lui che racconta. Io mi sono resa un pò invisibile, forse come traduttrice mi è venuto più spontaneo. Dopo 26 anni di libri, poesie, sceneggiature, una marea di articoli di giornale, tutte le chiacchierate insieme. Un atto di giustizia poetica come mi ha detto Carmen, sua moglie. Lui era troppo generoso, voleva scrivere le storie degli altri e tutti gli chiedevano di scrivere la sua».

Ed è stata proprio lei, Carmen Yanez, la poetessa cilena moglie di Sepùlveda, ad aprire il libro con un’intensa poesia e a chiuderlo, con una preziosa postfazione in cui sottolinea: «Attraverso il genere della favola, creando personaggi ispirati dalla grandissima intesa che aveva con la natura e con gli animali, Lucho ha esaltato i valori di cui era fatto per passare all’umanità i concetti etici della diversità, dell’uguaglianza, del rispetto dell’altro e della solidarietà».

E’ la prima biografia dello scrittore, diversa da quelle classiche e rigorose, miniera preziosa di aneddoti e storie, che vede Sepùlveda dialogare con il gatto Diderot, quello della Gabbianella. «Gli volevo dare un interlocutore – aggiunge Ilide Carmignani – scrivere un libro che si rivolgesse a tutti, nella tradizione delle favole di Sepulveda per ragazzi dagli 8 agli 88 anni e quindi avevo bisogno di una voce che qualche volta lo sollecitasse a spiegare perchè la vita di Lucho è un pezzo di storia del Novecento, ci sono aspetti non solo duri ma complessi, la politica di Salvador Allende, il negazionismo. Sepùlveda e Diderot è un po’ come se fossero Don Chisciotte e Sancho Panza, un eroe e un personaggio che per contrasto gli sta accanto e c’è anche la gatta Kissa, che vive al Polo Nord e difende l’ambiente. Meravigliosa la cornice, in un bazar sul porto, ad Amburgo, pieno di oggetti strani, con 17 macchine da scrivere appartenute a grandi scrittori e scrittrici dei cinque continenti dove gli abitanti e i marinai di passaggio possono scegliere quella preferita per raccontare il giorno più felice della loro vita. Qui arriva Sepùlveda, che agli occhi di Diderot assomiglia tanto al suo amico, il gatto Zorba, e sceglie la macchina da scrivere di Hemingway, da cui racconta questa storia».

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E ancora: «Amava molto Hemingway, aveva combattuto nella guerra di Spagna insieme all’adorato zio dello scrittore, Pepe Sepùlveda, è un dato storico. Sono tutte cose che arrivano da Lucho quelle che racconto. Il libro è venuto velocissimo, come tirare un filo, in un mese e mezzo. Dando voce a chi non aveva voce, Sepùlveda parlava a tutti. Credo che fosse la persona più lontana da un concetto aristocratico della letteratura che esista al mondo. Non ho voluto raccontare il Sepulveda scrittore perchè mi sembrava che i suoi libri, proprio per questa loro capacità di parlare a tutti potessero essere solo un po’ banalizzati da me. Lucio citava sempre Cortazar che diceva che la vita deve avere la carica estetica della letteratura e la letteratura deve avere la carica etica della vita. Raccontando il Sepùlveda uomo e cittadino in qualche maniera si illumina meglio la parte di scrittore che uno può leggersi da solo attingendo alla fonte. Ci tenevo che i ragazzi vedessero Neruda e Allende che si abbracciano, Lucio bambino, il vero Zorba».

Il libro si chiude con il dramma di un anno fa, il ricovero in ospedale. E il ritorno in Patagonia: porteranno laggiù lòe sue ceneri, a fine pandemia. Di mio aggiungo solo qello che mi disse, ossia che era innamoratissimo di Firenze e anche dei fiorentini, ma non solo di Dante e Machiavelli, ma anche dei contemporanei: gente che lo divertiva moltissimo per la passione, fino all’accanimento, che è capace di mettere in ogni cosa. Non si meravigliò dei pugni che si davano i calcianti pur d’infilare la palla in caccia, cioè in rete. Mi guardò commentando: Siete fatti così, se vi ritrovate in tre scoprite di avere almeno otto idee diverse…».

Sandro Bennucci

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