Economia circolare in Italia: solo il 24% delle imprese non è interessato

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(AGIPRESS) – Dal Circular Economy Report, redatto dall’Energy&Strategy Group della School of Management del Politecnico di Milano, importante focus in ambito di Economia Circolare. I finanziamenti che la transizione verso l’economia circolare porta in dote a livello europeo sono sostanziosi: 454 miliardi di euro di fondi strutturali e di investimento per oltre 500 programmi in tutto il continente, più 183 miliardi (637 in totale) di cofinanziamenti nazionali da parte degli Stati membri, cui si aggiungono i 26 a carico del bilancio dell’Unione Europea e i 7,5 dell’EIB-European Investment Bank dedicati al fondo europeo per gli investimenti strategici. Ciliegina sulla torta, i 900 miliardi stanziati dalla Commissione Europea con il cosiddetto Recovery Plan per la transizione ecologica nel prossimo decennio, di cui l’economia circolare è uno dei cardini. Quanto all’Italia, oltre ai 4,24 miliardi di euro per investimenti pubblici stanziati con la Legge di Bilancio 2020 a favore del Green New Deal, in cui rientrano anche interventi di economia circolare, a giugno il MISE ha avviato il finanziamento alle imprese per la riconversione delle attività produttive verso un modello circolare: 157 milioni di euro in finanziamenti agevolati e 62,8 in contributi alla spesa. Non molto, ma un primo passo. Utilizzare al meglio tutto questo denaro è certamente una priorità. Ma siamo pronti? “Con il Circular Economy Report inauguriamo un nuovo filone di ricerca in cui è stato decisivo il contributo delle nostre aziende partner – spiega in una nota Andrea Chiaroni, vicedirettore dell’E&S Group e curatore dell’indagine -. Capire di cosa realmente si stia parlando (non del ciclo dei rifiuti, per intenderci, che è solo la parte finale e a minor valore aggiunto del processo) è determinante e chiarisce immediatamente che in Italia la vera economia circolare è ancora di là da venire e richiede un tempo e un ammontare di investimenti ben più significativi di quanto oggi sia in campo. La Circular Economy non è la panacea di tutti i mali, la miglior soluzione possibile per ogni settore, ambito di consumo o attore in gioco. E’ un percorso lungo e complesso che però occorre intraprendere: dall’inizio del ‘900 la popolazione mondiale è cresciuta di 4,5 volte, il consumo di risorse naturali, invece, di quasi il triplo”.
“Si tratta di cambiare radicalmente prospettiva rispetto all’attuale economia lineare – prosegue Chiaroni -: mantenere i prodotti il più a lungo possibile nel circuito attraverso l’estensione della loro vita, la ridistribuzione, il riutilizzo, la rigenerazione e, soltanto alla fine, il riciclo. In questo modo, anche connettendo più filiere che traggano beneficio e condividano parte delle risorse (la cosiddetta “simbiosi industriale”), risulta possibile sostenere la stessa domanda di beni e servizi con un minor prelievo di risorse naturali. Non è quindi una ricetta di austerity, bensì di espansione della domanda, e qui sta la principale differenza con gli altri paradigmi sostenibili. In Italia non c’è ancora un ‘ecosistema’ circolare di player che lavorino insieme e spingano intere filiere tecnologico-produttive verso il nuovo approccio industriale. A mancare sono soprattutto le ‘piattaforme’, ossia gli attori deputati a costituire un bilanciamento tra la domanda e l’offerta di prodotti, materiali o risorse, creando ‘mercati’ che facilitino la circolazione delle risorse all’interno del sistema. La totale assenza di questi attori, salvo sporadici casi ed ancora embrionali, rappresenta una limitazione fortissima”.
LE PAROLE CHIAVE dell’economia circolare infatti sono tre: risorse, intese come componenti del prodotto, che hanno un ciclo di vita più lungo e un valore intrinseco recuperabile; re-disegn, perché le imprese sono chiamate a ridisegnare processi di produzione (con interventi di efficienza energetica) e prodotti che siano modulari e facilmente assemblabili, realizzati con materiali riusabili e riciclabili; proprietà, perché se nell’economia lineare il prodotto passa totalmente al cliente, nell’economia circolare la proprietà del prodotto deve restare al produttore, mentre il cliente ne paga soltanto l’utilizzo attraverso meccanismi di pay per use.
Il processo interessa sia le componenti “biologiche”, in grado di tornare al loro stato originario, sia quelle “tecniche”, che invece comportano lavorazioni in parte irreversibili e hanno come ultima opzione il riciclo. L’economia circolare mira a mantenere “in circolo” all’interno del sistema produttivo quanto più possibile entrambi i tipi di risorse, generando cicli virtuosi di ri-uso, ri-lavorazione e ri-ciclo. “La riduzione degli sprechi e il recupero dei rifiuti, o la valorizzazione energetica, è dunque solo una parte dell’economia circolare, per di più quella con minor valore aggiunto – commenta Chiaroni -. Le altre “r” dell’economia circolare, il ri-uso e la ri-lavorazione, sono assai più desiderabili, ma richiedono sforzi e investimenti ben differenti. Al riciclo siamo già abituati, ma per arrivare all’economia circolare la strada da percorrere è ancora lunga”.
L’economia circolare nel contesto industriale: l’Italia si è appena messa in moto – Per misurare la sensibilità del nostro sistema economico verso il passaggio all’economia circolare, senza pretese statistiche, l’E&S Group ha condotto un’analisi dettaglia coinvolgendo oltre 150 imprese in 4 macro-settori industriali: “Costruzioni” (opere di ingegneria civile o lavori di costruzione specializzati), “Automotive” (progettazione, costruzione e vendita di veicoli o componenti), “Impiantistica Industriale” (realizzazione di apparecchiature elettriche o macchinari destinati all’industria), “Resource & Energy Recovery” (recupero e smaltimento di rifiuti biologici, gestione di impianti per la produzione di energia elettrica attraverso biomasse). Per ciascuna impresa, in ciascun settore, si sono investigate le “pratiche” di economia circolare adottate, le barriere incontrate e i driver che invece ne hanno favorito la diffusione: il 62% delle aziende intervistate ha implementato almeno una pratica di Economia circolare o ha giocato un ruolo di supporto ad altre imprese nelle loro iniziative circolari (10%). Nel restante 38%, il 14% ha già chiara la volontà di adottare almeno una pratica di economia circolare nel prossimo triennio, mentre solo il 24% del totale si è dimostrato indifferente al tema. Cifre che potrebbero destare un cauto ottimismo. In realtà, proprio le imprese più attive sono le prime a riconoscere che la strada da fare è ancora lunga. Il settore “Resource & Energy Recovery” è quello che attualmente si colloca in posizione migliore rispetto agli altri, mentre le aziende dell’“Automotive” appaiono (e si percepiscono) come maggiormente legate a logiche di tipo lineare all’interno dei propri processi.

Quanto ai tipi di attività, si è adottato soprattutto il “Design for Environment” (intervenire sul ri-disegno dei prodotti e dei processi è il primo fondamentale tassello), mentre solo circa un terzo delle aziende ha introdotto pratiche relative al “Design for Remanufacturing/Reuse” e ben poche sono arrivate sino al “Design for Disassembly” e soprattutto alla messa in atto di sistemi di “Take Back”, ossia di recupero delle materie e dei componenti dai clienti finali. Siamo ben lontani quindi dal poter affermare che in Italia (per lo meno nei settori presi in esame) sia diffusa l’economia circolare, anche se il processo di trasformazione si è messo in moto.

Ma quali sono i fattori che hanno spinto le imprese all’adozione di pratiche manageriali per l’economia circolare? Certamente la presenza di incentivi per realizzare gli interventi necessari e di leggi o regolamenti a supporto della transizione, tuttavia appare fondamentale la “visione” manageriale e imprenditoriale. Quanto invece alle barriere, le più significative sono risultate l’incertezza governativa, che non agevola le aziende nella valutazione di decisioni strategiche, i costi d’investimento e le tempistiche associate alla realizzazione di interventi da sostenere per l’adozione delle pratiche circolari.

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